Il cibo non rappresenta, per noi umani, soltanto un mero strumento di sopravvivenza fisica: assegniamo inevitabilmente tutto un complesso di significati sociali e affettivi al cibo tant’è che, lo diceva già Lévi-Strauss, ciò di cui ci nutriamo non è mai solo buono da mangiare, ma necessariamente anche “buono da pensare”.

Il cibo ha tuttavia un significato affettivo ambivalente e apparentemente contradditorio: può rappresentare un “coccola”, un modo, come altri, di volersi bene e concedersi un piccolo piacere per rinfrancarsi dopo una brutta giornata, ma può rappresentare anche una modalità automatica e compulsiva di reagire alle difficoltà della vita, “anestetizzando” qualunque disagio affettivo dietro un falso senso di fame. In questo secondo caso, in realtà, stiamo mangiando le nostre emozioni senza riuscire né a viverle pienamente né a gustare realmente ciò che mangiamo.

Fra questi due estremi sta l’infinita e variegata variabilità del comportamento umano nei confronti del cibo e del potere consolatorio dei cosiddetti comfort foods.

Ma in cosa consistono esattamente?

Vari studi in campo psicologico e nutrizionale riportano una distinzione fondamentale: da una parte esistono cibi che contengono elementi nutritivi, i quali vanno a interagire direttamente con il nostro umore (per es. le banane o gli spinaci). Dall’altra parte esiste, appunto, il comfort food, cioè quel cibo che, grazie alla capacità del nostro cervello di fare associazioni tra un evento piacevole e specifiche sensazioni come odori, sapori e consistenze del cibo, fornisce felicità a livello psicologico. Il comfort food è infatti quella pietanza che ristora l’anima e il corpo, quel piatto che dopo una giornata decisamente no ha il potere di farci sentire protetti, coccolati e appagati.

L’aggettivo comfort sta ad indicare la capacità del cibo di confortare, consolare, coccolare, di soddisfare un bisogno sia fisico ma soprattutto emotivo. In fondo riesce a colmare le mancanze in momenti di stress fisici ed emotivi che ognuno di noi accumula durante la giornata.

Quello che è certo, infatti, è che il comfort food ha un potere palliativo e rigenerante non per le sue proprietà nutritive, ma perché è quello di cui abbiamo voglia quando vogliamo coccolarci e l’effetto placebo è evidente fin dal primo morso.

Il comfort food è figlio della comfort zone, un luogo familiare e intimo in cui ci rifugiamo quando fuori imperversano impegni e scadenze, e cambia da persona a persona. Non esiste, infatti, un comfort food adatto a tutti: ognuno confida le proprie debolezze, sopperisce alle proprie mancanze, con un piatto in particolare, perché legato a sensazioni a ricordi del tutto personali. Può identificarsi in quella torta di mele che preparava sempre la nonna, quel piatto del cuore che preparava per anni per il pranzo della domenica, quel cibo legato alla propria infanzia che al sol pensiero vi fa tornare bambini, legato ad una persona cara, ad un posto, un luogo, un ricordo felice. Ognuno ha il suo rimedio di gola per stare bene.

Gli psicologi chiamano questa categoria di cibo “surrogato sociale”, cioè esperienze non umane che ci fanno sentire uniti con gli altri. Infatti non solo mangiare comfort food ci fa sentire meglio e quindi in qualche modo ha lo stesso effetto degli amici, ma anche il solo pensare a questi cibi ha un effetto positivo sul nostro umore.

Ci sono però anche degli effetti negativi a lungo termine. Nella vita adulta un buon indicatore della salute psicologica e della capacità di gestire le emozioni e gli stress non è data tanto dal tipo di strategia che adottiamo per sentirci meglio, ma soprattutto da quante modalità diverse e variegate possiamo adottare per affrontare le difficoltà e darci conforto. Un rapporto sano col cibo non significa non utilizzarlo mai come comfort food, piuttosto poter ricorrere anche ad altre forme di conforto nei momenti di stress: leggere un libro, ascoltare della musica, cucinare, andare a fare shopping piuttosto che andare a correre o in palestra… Tante attività possono essere di conforto e, se lo sono realmente, ci lasciano uno stato d’animo più sereno con il quale ci sentiremo più in grado di affrontare la situazione. Quando i comfort foods rappresentano invece una dipendenza, e quindi l’unica modalità con cui reagire alle avversità della vita, dopo un temporaneo sollievo lasciano generalmente sensi di colpa, tristezza e autosvalutazione che peggiorano lo stato di sconforto iniziale rischiando di innescare un pericoloso circolo vizioso. In questo caso quella porzione di lasagna o quel pacco di biscotti non avranno rappresentato una reale coccola per rinfrancarci, piuttosto l’ennesima sconfitta verso noi stessi e la nostra capacità di gestire e decidere della nostra vita…

In generale, quando siamo dipendenti dai comfort foods stiamo soltanto “mangiando” le nostre emozioni per non sentire ciò che ci disturba allontanandoci sempre di più dal vero problema e mettendoci nelle condizioni più difficili per affrontarlo.

Spesso la scelta di seguire un regime alimentare più sano dipende o viene comunque largamente influenzata da dinamiche relazionali e modalità di pensiero caratteristiche. La sensazione è che il cosiddetto “emotional eater”, ossia colui che non riesce a seguire delle sane regole alimentari poiché tentato dal cibo a trasgredire, utilizzi il cibo non solo come sostituto simbolico di qualcosa che manca, ma come vero e proprio “oggetto” con il quale creare un rapporto che sia fonte di una qualche forma, seppur surrogata, di soddisfazione. “Non riesco a dire questa cosa”, “Non riesco ad avere una relazione soddisfacente con questa persona”, “Non sono soddisfatto di me”, “Non riesco ad impormi”, “Non riesco a risolvere questo problema sul lavoro” sono alcune delle affermazioni alle quali segue il ricorso al cibo come mezzo di consolazione. Cosa avviene nello specifico e perché ricorriamo al cibo anche se non lo vorremmo e dopo, spesso, ci sentiamo anche in colpa?

In tutte queste dinamiche c’è uno spostamento (dalla realtà del qui ed ora, dalla situazione conflittuale o dal problema che non riusciamo ad affrontare e risolvere, quindi da un focus interno), a qualcosa che ci dà soddisfazione, anche se momentaneamente (focus esterno), che ci fa sentire meglio e ci allevia le sofferenze date dall’ansia, dalla tristezza e dalla rabbia, ci conforta e ci rassicura, facendoci ritrovare l’ottimismo ed il buonumore, anche se solo per un momento. Già agli albori della psicoanalisi era stato studiato il rapporto tra uomo e cibo ed il significato simbolico che questo assume, al di là della mera e semplice funzione nutritiva. Pensiamo, per esempio, alla fase orale nello sviluppo del bambino descritta da Freud, al rapporto con la madre nel periodo dell’allattamento descritto da Melanie Klein, ed anche alla cosiddetta “personalità orale” di cui si parla in bioenergetica. Quest’ultima, in particolare, si sviluppa nella misura in cui al bambino non viene dato cibo in rapporto al reale bisogno nutritivo bensì, per esempio, per sedare il pianto, sopprimendo in tal modo l’espressione di altri bisogni. Questa, come altre modalità simili che insorgono già dai primissimi mesi di vita nella diade madre – bambino, hanno un importante impatto relazionale, che può appunto essere alla base di un successivo disturbo in età adulta, sul cui aspetto relazionale è sempre possibile intervenire attraverso una psicoterapia. Così come ce lo descrive A. Lowen, infatti, il carattere orale si distingue per la tendenza al bisogno di approvazione, per la richiesta di supporto continuo, nonché di rassicurazioni (il nutrimento), e per la tendenza ad instaurare legami di tipo dipendente. Tutti aspetti che ci rimandano al bisogno di un nutrimento che, oltre che fisico, sia anche emotivo.

Di fatto si crea una sorta di circolo vizioso in cui, se inizialmente il ricorso al cibo può essere controllabile, a lungo andare diventa una vera e propria dipendenza dalla quale è sempre più difficile uscire, sia fisiologicamente che psicologicamente, in quanto si tenderà a credere che il proprio benessere dipenda esclusivamente dall’assunzione di cibo. Quindi, agli aspetti di gratificazione sensoriale si sommano quelli legati alla reazione fisiologica, che deriva dall’assunzione di carboidrati, ed agli aspetti psicologici, che ci impediscono di ritenerci capaci di uscire dal quel meccanismo di dipendenza, con grosse ricadute sull’autostima personale.

Del resto occorre ammettere che, se il problema fosse legato solamente ad una disconoscenza delle fondamentali regole di buona e sana educazione alimentare, basterebbe una dieta per risolvere la questione in maniera definitiva. Spesso non basta nemmeno affrontare il problema del cambiamento delle abitudini alimentari, dei ritmi e dello stile di vita, poiché, una volta interrotte anche le visite di controllo, prima o poi, nella fase di mantenimento, si finisce per ricadere nelle vecchie modalità comportamentali. Dunque, mangiare non è qualcosa di “matematico”, in cui imparo come farlo, conto le calorie e modifico le mie abitudini alimentari, ma è un processo che fa leva su aspetti ben più profondi e radicati nel nostro essere.

È fondamentale dunque che, nel momento in cui ci si appresta a iniziare un percorso per la gestione del peso, non ci si fermi solo agli aspetti dietologici, ma si affrontino anche quelli psicologici.