Sempre più spesso i genitori si trovano ad affrontare dei comportamenti particolari del proprio figlio che è etichettato come “iperattivo”.

Per questo mi è sembrato interessante proporre piccole linee guida, a tutti coloro che si occupano d’infanzia, per distinguere quando un bambino può essere definito un DDAI (disturbo da deficit di attenzione e iperattività; DSM-IV 1994), da quando la condotta è una condizione “non clinica” (un sintomo) che comunque sottende un disagio.

I bambini con diagnosi di DDAI, spesso incontrano ostacoli in aree importanti dello sviluppo, come l’apprendimento, il controllo dell’aggressività, e le relazioni sociali (Hinshaw, 1994).
Il DSM distingue il disturbo all’interno di tre quadri clinici, a seconda della prevalenza di sintomi di disattenzione (tipo con disattenzione predominante), di iperattività (tipo con iperattività/impulsività predominanti), oppure un quadro in cui sono presenti entrambi (tipo combinato).
Affinché si possa diagnosticare uno di questi tipi, è necessario che siano presenti almeno sei sintomi specifici in ciascun’area, ne cito solo alcuni quali: aggressività e condotte antisociali, difficoltà nell’apprendimento e scarsi risultati scolastici, rifiuto da parte dei pari…
È difficile stabilire un’unica causa eziologica, ma è possibile comunque distinguere variabili che predispongono al disturbo, ossia “fattori di rischio biologico o ambientale”, e “eventi precipitanti” ossia eventi che accompagnati ai fattori predisponenti, favoriscono il comportamento disturbato.

Non credo che questo sia il contesto per essere troppo specifici. Il punto è che solo un’accurata valutazione clinica rende possibile l’identificazione di taluni soggetti, e non tutti i bambini che manifestano una “spiccata vivacità” sono DDAI.
Che si tratti di una condizione clinica generale, piuttosto che di un sintomo specifico, la mia attenzione si rivolge alle famiglie: solitudine, inadeguatezza, senso di colpa, sono i peggiori nemici per una mamma o un papà con un bambino che manifesta un disagio.

Le famiglie che riconoscono le difficoltà dei propri figli, non sempre richiedono una valutazione diagnostica oppure si rivolgono a specialisti, (a meno che non siano tempestivamente segnalati dalle scuole), ma alcune di esse si trovano da sole e impotenti di fronte a bambini ingestibili, seppure piccolissimi. Arduo è dunque il compito genitoriale, quando non si riesce a calmare o contenere il proprio figlio, in preda a una crisi di nervi, a un pianto dirompente, o a una spiccata attivazione psicomotoria.
È questo il termine con cui ritengo più giusto definire questi bambini: “bambini in difficoltà”, tanto quanto i propri genitori.
Non si può pertanto limitare al bambino la diagnosi di un disturbo, ma è importante comprendere nell’analisi l’intero sistema famiglia, che soffre e si trova in difficoltà.
L’intervento rivolto a queste famiglie può essere polifunzionale e può coinvolgere l’individuo, la famiglia e il contesto sociale.
Sarà così possibile creare uno spazio ”alternativo” in cui i bisogni e le paure possano trovare libero sfogo, cercando di dare un senso a quell’”agitazione” che tanto spaventa.